Un po’ di tutto, in ordine sparso.

Nel 2014 quattro amiche hanno inventato un condominio immaginario, ma non per questo meno reale, al numero 23 di Via delle Ortiche. Per quattro anni, in Via delle Ortiche, si sono intrecciate le storie delle quattro inquiline che quelle quattro amiche hanno immaginato (se conoscete l’Enneagramma ci metterete poco a fare, letteralmente, due più due). Poi – come spesso accade – senza fare rumore, senza boati e senza lampi di luce, quella storia si è conclusa. Senza nemmeno un vero finale. Così, il finale che ho scritto in una malinconica notte di settembre, lo sistemo qui nel mio circo. La voce è quella dell’inquilina che, per caso o per inevitabilità, dal primo giorno ha capito di somigliarmi. Si chiama Emma, è una cinefila per vocazione, procrastinatrice professionista, laureata nell’arte di scongelare. Per quattro anni ha abitato in Via delle Ortiche 23, piano terra, appartamento a ovest. Questo è il suo arrivederci.

Questa mattina sono entrata nel bar in cui faccio colazione quasi ogni giorno. Lo chiamo il bar dei vecchi per motivi facilmente deducibili: imperdibili conversazioni sui piccioni e sulla Corea del Nord. Comunque. Sulla lavagna, sotto il prezzo del caffè, c’era una citazione. Una sola riga rubata a Tolkien: «No, non terminano mai i racconti».

Ci sono alcune frasi che, dopo averle lette o ascoltate, non riesci più a dimenticare. Frasi che capitano proprio nel momento in cui ne avevi bisogno. Un minuto prima, un secondo dopo e le avresti sentite scivolare via senza nemmeno un leggero solletico. Invece si aggrappano con le unghie, ti graffiano e, tu che hai sempre avuto la pelle troppo delicata, sai che il segno resterà per sempre.

I racconti non terminano mai. Terminano i viaggi, fino al viaggio successivo. Terminano gli amori, a volte. Le amicizie, il mutuo. Terminiamo noi. Noi che forse siamo un romanzo, ma forse no. Forse siamo un’antologia di racconti, ogni racconto con un inizio e una fine.

Oggi dirò alle ragazze che il mio racconto di Via delle Ortiche termina qui, che ho deciso di partire e di lasciare questa casa che ho amato, che amo come forse non mi capiterà più e ne raccolgo i momenti per non dimenticarli, per poterli tirare fuori quando avrò freddo e una canzone alla radio sveglierà la nostalgia.

Ricordo quella volta che Daniela mi ha fatto notare che potevo spegnere la caldaia quando volevo. Ho sempre pensato che facesse tutto da sola, anche dopo aver passato un intero dicembre in canottiera.
Ricordo il primo brindisi con Laura quando nel mio appartamento non c’era che il divano. C’è ancora la macchia di vino rosso, nel cuscino di destra che ho girato sottosopra.
Ricordo Lidia sulla porta con un bamboo portafortuna. «Questo non muore praticamente mai» aveva detto e io, che ho visto seccarsi piante grasse e orchidee resistere non più di un giorno, quel bamboo l’ho spostato di stanza in stanza. Ora è accanto alla televisione, perché non mi sembra giusto privarlo di Netflix.
Ricordo la prima cena insieme, un barbecue di mezza estate con marshmallows e pannocchie.

Dirò loro che ho deciso di partire, perché per quanto questo sia il mio posto, forse non è il solo posto che chiamerò “mio”. Perché è il momento e perché ho sempre pensato che la scelta giusta sia quella che lascia intatti i bei ricordi.

Sorrideranno, ma non subito. Daniela fingerà che non le importi, ma dopo qualche ora mi scriverà un messaggio meraviglioso. Ci diremo che non ci dimenticheremo mai. Che passeremo a trovarci, ci sentiremo. I primi mesi il telefono non farà che squillare, poi squillerà un po’ meno. Poi lo farà solo una volta ogni tanto, per gli auguri di compleanno e in quei momenti in cui non potremo fare a meno di pensare a noi. O forse no. Forse squillerà per sempre, perché «non terminano mai i racconti». Anche quando lo fanno.


Routine

Oggi mi racconto di quei due anni in cui ogni mattina, sulla strada che portava in ufficio, incrociavo la Volkswagen. Per due anni tutte le mattine io sfanalavo, lei sfanalava. In quella minuscola e precisa finestra di tempo tra le 8:10 e le 8:14. In quella minuscola e precisa porzione di spazio che abbracciava il distributore Agip. Con una regolarità che solo nei film (e anche nei film ti fa esclamare: «Ma dai, questo non è credibile!»). Mai visto chi la guidasse, mai saputo che cosa ne sia stato di lei quando, senza dare preavviso, ho cambiato lavoro.

Probabilmente non è successo proprio ogni mattina per due anni, ma io ho deciso di ricordarmela così. È una delle cose che preferisco, dei ricordi: dopo un po’ si aggiustano.


The Leftovers

Circus

In una scala da 1 a Kevin Garvey, come ti senti?
Come stai, in una scala da 1 a Nora Durst?


Perché odio Steven Spielberg

Partiamo da un’indispensabile eccezione. Indiana Jones e l’ultima crociata è uno dei film che amo di più al mondo. Se ci fossero altri mondi, lo amerei anche in quelli. Cito a memoria quasi ogni battuta, ma (contro ogni pronostico) quella che nel tempo ho ripetuto più volte è: «Solo l’uomo penitente potrà passare». Non chiedetemi come, non cercate di immaginare in che contesto, fidatevi e basta.

Prima di arrivare al dunque, vorrei condividere due teorie che da anni sostengo con tutte le mie forze. La prima si può riassumere in una semplice frase: Spielberg e Zemeckis sono la stessa persona. Altrimenti come si spiegherebbe Forrest Gump? Esatto.

La seconda teoria è un po’ più articolata, ma il concetto alla base è che Tom Hanks sia il male supremo. Ho molte prove a sostegno, ma quella a cui tengo di più è la capacità unica che possiede soltanto Tom di riuscire a rendere noiosi persino i dialoghi scritti da quel genio assoluto di Aaron Sorkin.

So benissimo che Spielmeckis ha fatto anche cose buone: dal soggetto dei Goonies a «telefono casa», voi direte Lo squalo e i dinosauri, eccetera. Potremmo discutere per ore, ma arriveremmo comunque al motivo per cui ho deciso che, nonostante la gratitudine per Junior, suo padre e i ritorni al futuro, l’odio deve vincere.

Il motivo è (Ready) Player One.

Per chi non ne fosse a conoscenza: Ready Player One è un libro, prima che uno scempio cinematografico. Definirlo “libro” è riduttivo. Ready Player One è un’esperienza obbligatoria per chiunque sia nato dopo il 1970. Ma anche prima, anche durante. Insomma: leggetelo.
La traduzione non è un granché, ma l’avventura è straordinaria.

Potreste ribattere: «Non mi serve leggere il libro, ho visto il film» e io, allora, avrei due opzioni. La prima è girarmi e andarmene, la seconda è rispondere che (per fortuna) il film non c’entra nulla con il libro.

Ora dovrei iniziare a elencarvi le differenze, ma rimarrebbero fuori soltanto i nomi, perciò ne sceglierò cinque, forse nemmeno le più importanti:

1. Art3mis, nel libro, è una blogger fenomenale. Il suo talento è uno dei motivi, se non Il Motivo, per cui Parzival si innamora di lei.
Art3mis, nel film, è uno stereotipo tagliato con l’accetta.

2. Aech, nel libro, è un genio. Conosce a memoria ogni film/romanzo/serie tv/prodotto degli anni Ottanta e le scene in cui passa il tempo con Parzival nella Cantina, facendo a gara a chi la sa più lunga, sono la vera anima di Ready Player One.
Aech, nel film, è uno stereotipo tagliato con l’accetta.

3. Daito e Shoto, nel libro, traboccano di quel tipo di onore che possiamo imparare solo dall’oriente.
Daito e Shoto, nel film, sono stereotipi tagliati con l’accetta.

4. James Halliday, nel libro, è un uomo comune eletto a divinità. Ha creato un luogo in cui, dopo il disastro che ha sconfitto il Pianeta, i ragazzi possano studiare ugualmente, crescere ugualmente. Per poter continuare a difendere questo diritto non ha ceduto alle offerte delle multinazionali. Oasis non è un gioco: è un’alternativa al dramma, è una speranza.
James Halliday, nel film, è uno stereotipo tagliato con l’accetta e Oasis non è altro che un videogioco, nemmeno troppo articolato.

5. Nel libro, tutti non possono fare tutto. Il sistema economico impedisce ad alcuni abitanti di uscire dal pianeta Ludus e non è un caso che Halliday abbia nascosto la prima chiave nell’unico luogo accessibile a chiunque. Ricco o povero, avrebbe solo dovuto capire. Sarebbe stata l’intelligenza, non la ricchezza, a vincere.
Quella prima chiave, poi, è dannatamente difficile da trovare. Art3mis ne scopre la posizione, ma non riesce a prenderla, perché anche conquistarla è dannatamente difficile e no, non basta essere bravi a Mario Kart.

Per poter raccontare tutto quello che va raccontato, Spielmeckis fa proprio questo: lo racconta. Contravvenendo alla prima e imprescindibile regola di qualsiasi bravo narratore: mostra, non spiegare.
Questo sarebbe sufficiente a liquidare il film come una schifezza.

Il problema è che, stavolta, Spielmeckis non si è limitato a fare un brutto film, pieno di retorica e siparietti che anche negli anni Novanta sarebbero sembrati superati. Stavolta Steve ha rovinato un libro che, nelle mani giuste, sarebbe diventato un film leggendario. Perché in Ready Player One c’è tutto: la critica sociale, l’amore, una delle più belle amicizie mai raccontate, scene che sarebbe bastato copiare-incollare e tanti di quei riferimenti pop da arrivare a qualsiasi pubblico, di qualsiasi età o estrazione sociale. Non bisognava fare altro che capirlo.

Spielmeckis non l’ha capito. Non ho altra spiegazione, perché alla base di tutto c’è un principio molto semplice: si gioca da soli. È una questione di onore. È solo alla fine, davanti all’ultima porta, con le tre chiavi, che questo principio viene stravolto.

Ready Player One, se ci fosse bisogno di dirlo, ha il finale perfetto. Nell’ultimo capitolo Parzival incontra Art3mis. Solo allora, dopo la Battaglia. Non si sono mai visti prima, lei non ha voluto: c’era qualcosa da combattere, qualcosa di più grande del loro desiderio di conoscersi. Quello che provano l’uno per l’altra ha a che fare con l’ammirazione, con l’estrema fiducia di chi parla la stessa lingua e, alla fine, di parole non ha più bisogno. Non è la tempesta ormonale di due adolescenti logorroici. E nel momento del loro incontro, per la prima volta, Parzival non sente la necessità di tornare immediatamente su Oasis. Ci tornerà, ma non ha fretta. È il finale perfetto e, come tale, l’unico finale possibile. O così credevamo, perché nel film, per concludere il disastro con un altro disastro, Parzival decide di “chiudere” Oasis due giorni a settimana. Come la macelleria sotto casa.

Potrei continuare, analizzando ogni fotogramma e le mancate spiegazioni (perché i Sixers si chiamano così? perché nessuno protesta per l’esplosione di un intero quartiere? perché la vicina sopravvive alla distruzione della sua casa? che fine fa lo squadrone di Art3mis? come fa a uscire senza essere vista dall’ufficio di Sorrento? perché nel momento in cui Parzival fa credere a Sorrento di essere nella realtà, ma si trova all’interno di Oasis, vediamo il vero Sorrento e non il suo avatar?), ma mi limiterò a due semplici considerazioni.

1. Scoprire che l’autore del libro, Ernest Cline, ha partecipato alla sceneggiatura del film è stata una di quelle delusioni che somigliano piuttosto a microscopici tradimenti da cui sai che difficilmente riuscirai a riprenderti.

2. Provate a pensare che cosa sarebbe potuto essere, che film avreste potuto vedere, riguardare, imparare a memoria e citare per anni e anni, in qualsiasi contesto.

Il film che sarebbe potuto essere, sarebbe stato probabilmente il mio film preferito.
E, forse, anche il vostro.

Nella mia personalissima visione delle cose, però, anche Player One ha un lato positivo e, se avete letto con attenzione, avete già capito quale:
in Player One non c’è Tom Hanks.


Westworld

Circus«Maltrattare i propri personaggi» è un ottimo consiglio, ma solo se sei assolutamente certo che non finirai con l’incontrarli. La durissima vita degli storyteller, parte prima.

CircusSbagliare sempre, redimersi inutilmente e accettare che nessuno si ricorderà di te. La durissima vita degli storyteller, parte seconda.


San Valentino, i coltelli e la ginnastica artistica

Ci sono alcuni ricordi, inspiegabilmente tenaci, che contro tutti i pronostici, contro la logica e la meritocrazia, semplicemente resistono. Sono ricordi sottili, sembrano tanto deboli da volare via al primo soffio di vento e invece se ne stanno lì, aggrappati alle scogliere della memoria per trenta, quaranta, cento anni, senza segni di cedimento. Ricordo il fidanzatino della mia insegnante di ginnastica artistica. Ci fa segno di non dire nulla con l’indice appoggiato alle labbra e la sorprende alle spalle con un coltello giocattolo dalla lama retrattile. Lei ride fortissimo e ancora più forte lo abbraccia. Io, quattro o cinque anni al massimo, mi scopro a sperare che prima o poi qualcuno decida di amarmi tanto da accoltellarmi esattamente così.

A pensarci bene è piuttosto divertente che, a quattro o cinque anni al massimo, la mia idea dell’amore romantico fosse una coltellata alla schiena.


Firenze Rocks 2017

Ci sono alcune giornate che per un soffio hai rischiato di non vivere. Perché hai pensato che sarebbe stato meglio non partire, perché avevi paura di un attacco terroristico, del caldo torrido, di essere calpestato durante il panico generale. Per pigrizia o perché a metà strada ti sei accorto di aver scordato la patente sul tavolo del salotto. Di solito sono quelle giornate che finiscono per essere tra le cinque o sei che ricorderai per sempre.

Non sono nata con il grunge. Ho scoperto la voce di Eddie Vedder con colpevole ritardo, ma (a mia parziale discolpa) non l’ho più lasciata andare. L’ho conosciuta con una canzone che passava spesso alla radio quando ancora i miei gusti musicali erano confusi e non ero io il pilota. Una canzone che gridava ai miei 19 anni qualcosa di seducente e terrificante al tempo stesso: «I know I was born and I know that I’ll die the in between is mine. I am mine». La cantavamo stonati durante le grigliate sul fiume, con le birre incastrate tra i sassi.

Non sono mai stata una fan perfetta dei Pearl Jam: mi innamoravo delle canzoni sbagliate. Adoravo una traccia di Vitalogy che diventò in fretta troppo famosa. I miei amici tendevano a saltarla e la ascoltavo da sola, guidando senza meta in piena notte: «She dreams in color she dreams in red can’t find a better man». Prima di tornare a casa passavo per il centro della città ed ero sempre troppo stanca per parcheggiare in garage. Lasciavo la macchina sulla strada, sapendo che mio padre non ne sarebbe stato felice.

Non sono mai riuscita a finire Into the Wild, perché io, che tremo all’idea di una distrazione, non voglio assistere a quel minuscolo errore fatale e dover pensare a quanto tutto sia appeso a un filo, né a quanto sottile quel filo sia. La colonna sonora, quella la conosco così bene da riconoscere i silenzi tra una traccia e l’altra. Mi sono fatta accompagnare dall’altra parte dell’oceano da Guaranteed e Society, da Hard Sun, Setting Forth e Rise.

Non sono una fan perfetta e va bene così, dopotutto non mi definisco una fan. Dico solo che se la Terra stesse per estinguersi e nella capsula da inviare nello spazio ci fosse posto per una voce soltanto, vorrei fosse quella di Eddie Vedder a raccontare la nostra storia.

La racconterebbe come ha fatto un sabato di giugno davanti a cinquantamila persone, con una bottiglia di vino e una chitarra. Con ironia e sentimento e tenerezza e rabbia e stupore e gratitudine e malinconia e amore. Con le parole giuste e, naturalmente, la voce perfetta.

In molti hanno cercato di descrivere una serata indescrivibile: tra tutte le parole ce n’è una ricorrente e quella parola è “magia”. La stella, così grande, così vicina, che ha scelto di cadere sulle note finali di Imagine può essere stata una coincidenza, certo, solo un piccolo incontro casuale nell’universo dei momenti, ma in quell’istante, quando abbiamo sentito sciogliersi la stanchezza e le preoccupazioni svanire, è stata forte l’impressione di aver assistito a qualcosa di grande, molto più grande di noi.

L’attimo dopo eravamo ancora lì, ma la magia non se n’era andata. L’abbiamo ritrovata in forma diversa qualche canzone più tardi, quando cinquantamila voci (più due) hanno intonato Rockin’ in the Free World di Neil Young. Senza nemmeno saperlo credo che in molti abbiano cercato di urlare un po’ più forte, per farsi sentire un po’ più lontano, per coprire il suono della paura che, anche se lieve, è sempre dannatamente presente.

Quando incontrerete qualcuno che è stato lì quella sera e gli chiederete che cosa ricorderà per sempre forse risponderà con il titolo di una canzone, forse vi mostrerà una foto, una maglietta. In pochi vi diranno di averlo sfiorato, in molti di non averlo visto quasi per nulla. Qualcuno vi parlerà di quella stella cadente, qualcun altro del momento in cui la sua canzone preferita si è trasformata in un saluto. Discreto e immenso come la storia di una vita intera, come una richiesta disperata, l’unica possibile: «Come back».

Così. La giornata che per un soffio ho rischiato di non vivere. Tra le cinque o sei che ricorderò per sempre. Io che non credo alle coincidenze voglio pensare che non sia un caso che tra le canzoni ci fossero anche quelle che ho sempre chiamato, senza alcun diritto, mie.

È possibile sentirsi unici in una moltitudine e pensare che alcune cose siano solo tue e poi aprire gli occhi e capire che lo sono: sono contemporaneamente solo tue e solo di ognuna delle persone che ti stanno accanto. Sono le tue grigliate al fiume o la sera che tra tutte le canzoni lui ha scelto proprio quella. È il tuo viaggio attraverso i parchi americani, sono i tuoi tentativi di imparare a suonare l’ukulele, i tuoi giri in macchina alle due del mattino, le tue notti sul balcone a fumare. Chissà se la magia è nata da tutti i ricordi che riempivano il cielo di Firenze, dalle nostre storie, dall’amore che abbiamo perso, dall’amore che abbiamo trovato, dagli amici a cui abbiamo detto addio, dai sogni che custodiamo nonostante la vita e dalla nostra buona speranza.

Non c’è molto da aggiungere, anche tutte queste parole potevano essere risparmiate, ma se aiutano a credere che la musica possa davvero salvarci da qualsiasi tipo di guerra, allora è stato giusto scriverle, perché è un altro modo di urlare un po’ più forte, di farci sentire un po’ più lontano. Di coprire il suono della paura e di continuare a fare rock, a modo nostro, nel mondo libero.


23 cose da fare tra la California e il Nevada

Guardare una partita dei Padres nel maxischermo di un pub a San Diego.
Farsi chiamare «honey» da una cameriera del Waffle Spot al King’s Inn.

Guidare sulle colline di Hollywood la notte e spiare le finestre accese.
Camminare sulla strada opposta alla Walk of Fame, entrare nei negozi che i turisti sembrano evitare, comprare la maglietta di un gruppo rock e cambiarsi sul marciapiede.
Fermarsi a fumare una sigaretta con chi non ha una casa.
Sedersi nel prato della UCLA a osservare le improvvisazioni degli studenti di recitazione.
Incontrare Gesù a Santa Monica.

Santa Monica

Sorprendersi per un procione che scavalca lo steccato di un albergo sull’oceano a San Francisco.
Giocare nella sala vintage e farsi rubare il pranzo dai gabbiani del Pier 39.
Piangere per gli animali in gabbia nelle strade di Chinatown.

Osservare i troppi anelli di fidanzamento impegnati nei pawn shops del deserto.
Attraversare la Death Valley contando i brandelli di copertoni delle ruote esplose per il caldo.
Arrivare a Zabriskie Point di notte e restare in silenzio immaginando di essere sulla Luna.
Comprare una coperta patchwork e sognare la storia di chi l’ha cucita. Entrare nel negozio a fianco e scegliere un paio di stivali usati.
Chiedersi che cosa ci facciano tutte quelle cassette della posta dove non ci sono case.

Fotografare i bagni del Caesars Palace.
Vincere 28 dollari. Perdere 46 dollari.
Camminare sulla Strip di Las Vegas mentre esplode la fontana del Bellagio.
Lasciare che un uomo anziano ti ceda la sua slot machine fortunata.
Bere un cocktail al bar dello Stratosphere e contemplare la follia delle giostre appese nel vuoto.

Chiederti come sarebbe stata la tua vita se fossi nato qui.


Garlic County

California

Allora penso alla California, chissà poi perché. Mi ricordo di un piccolo negozio di ciliegie nella Garlic County. Uno spaccio di legno color vino, abbandonato a lato della strada. C’era una ragazza: grattava il pavimento con una vecchia scopa ed era come un sussurro. Rimasi a guardarla qualche secondo, forse un minuto, prima di ripartire. Mi ero fermato solo per chiedere di usare il bagno, sentendomi in difetto, come fosse sbagliato chiedere qualcosa, qualsiasi cosa, in un posto come quello. L’alito del vento soffiava aglio e sole, io rimasi immobile accanto alle ciliegie raccolte nelle cassette di legno ad ascoltare la musica diffondersi dagli altoparlanti.

Quando arrivai alla macchina pensai che fosse un luogo in cui avrei potuto vivere, quella era una donna che avrei potuto amare. Mi sarei persino abituato all’aglio con il tempo.

Fu un pensiero veloce, comunque, in pochi istanti era già lontano.


A prima vista

A una mostra fotografica sulle donne italiane nel dopoguerra, tra i volti distesi e segnati, incuranti del loro tempo, ho ritrovato te, nonna. Avrei voluto strappare la tua fotografia dalla parete, ammonire i presenti perché smettessero di fissarti, perché non pensassero nemmeno per un istante che quell’unico sguardo riconoscesse loro il diritto di reclamarti, che concedesse loro il privilegio di averti conosciuta. Avrei voluto scappare con la tua fotografia come dal campo di una battaglia e al tempo stesso avrei voluto vantarmene, nella vana speranza che qualcuno indicasse con un cenno di assenso un’improbabile somiglianza. Ho guardato meglio e non eri tu. E sono stata delusa e sollevata, ma sopra ogni cosa sono stata felice: ricordo il tuo viso come se mi avesse sorriso ieri.


In prossimità di una stazione

Ci sono sempre: capannoni abbandonati con le finestre in frantumi. Sembrano lasciati cadere con uno schianto di vetri da una mano gentile, a pochi metri da un arrivo qualunque, per farci sentire a casa.